PAESI
Ungheria: la politica di rigore affossa i socialisti
I due turni delle elezioni ungheresi, l'11 e il 25 aprile, hanno rappresentato le tappe di una marcia trionfale, che ha riportato i conservatori dell'Unione Civica Ungherese "Fidesz" (Fidesz - Magyar Polgári Szövetség) al governo dopo otto anni di opposizione (Figura 1). E' stata un'apoteosi per il partito, fondato come movimento genericamente antiautoritario dal giurista Viktor Orbán nel 1989, ma presto attestatosi su sponde ultra-liberiste nel corso dei primi anni '90. Forte del 52% dei voti, Fidesz- associato con la piccola democrazia cristiana magiara (KDNP), un partito che si è sempre attestato intorno al 6% - ha oltrepassato la soglia della maggioranza assoluta, aggiudicandosi il controllo di oltre i due terzi (263) dei 386 seggi che compongono l'assemblea nazionale (Figura 2). Un simile esito - stando al dettato costituzionale - "qualificherebbe" la nuova maggioranza a modificare la carta fondamentale del Paese. Secondo quanto dichiarato in campagna elettorale, alcune modifiche potrebbero riguardare il taglio degli scranni parlamentari, da 386 a 200, oltre alla riduzione dei poteri dei rapaci enti locali. Infine, il nuovo governo vorrebbe semplificare il rilascio della cittadinanza alle minoranze ugrofone nei Paesi confinanti, più di 2,5 milioni di persone, pari a più di un sesto del totale dei magiarofoni. Se gli auspici dovessero tradursi in legge, 1,5 milioni di cittadini romeni di nazionalità ungherese potrebbero votare in futuro per il Parlamento di Budapest, così come 600.000 connazionali in Slovacchia, 300.000 in Serbia e 200.000 in Ucraina. Mai partito aveva ottenuto tanti seggi, da quando, giusto vent'anni fa, il Paese danubiano era uscito da mezzo secolo di comunismo, dandosi il primo parlamento democraticamente eletto. Ad un simile exploit si erano avvicinati nel 1994 i socialisti del Magyar Szocialista Párt (MSZP), che pur ottenendo il 54% dei voti si fermarono a 209 parlamentari. Le manifestazioni guastarono il clima dei festeggiamenti per il cinquantenario dall'insurrezione ungherese. Richiamandosi idealmente a quel periodo storico, torme di facinorosi misero a soqquadro la capitale intimando nuove elezioni. L'equazione era agevolata dal fatto che molti tra i notabili socialisti hanno servito nel vecchio partito comunista di Kádár, il normalizzatore della vicenda magiara per conto dell'URSS dopo i moti del'56. Quegli scontri misero in luce lo Jobbik che, nato nel 2003, ha visto crescere i propri consensi in tutte le consultazioni, dalle amministrative dell'autunno 2006 in poi. Dopo le sommosse del 2006, Gyurcsány e Bainaj, suo ministro dell'economia e successore alla premiership dal marzo del 2009, hanno tentato di correggere la rotta. La manovra è riuscita in parte. |
Il tasso di crescita del PIL magiaro negli anni 2000 (Figura 3) è andato rallentando rispetto ad altri Paesi dell'Est che partivano più indietro, il 2,4% rispetto- ad esempio- alla media del 5,5 della Polonia o addirittura all'8% dell'Estonia, una delle "Tigri Baltiche". Ad altri problemi strutturali, quali l'inflazione al 7%, l'elevato debito pubblico - il 73% del PIL secondo il FMI nel 2008, schizzato all'83% nel 2010 (Figura 5) - la corruzione endemica delle classi dirigenti, l'inefficienza dell'apparato burocratico e la forte dipendenza da capitali stranieri, sono andate sommandosi le dinamiche della recessione, che hanno determinato un rimpatrio dei capitali "forti". Ne è seguita una repentina svalutazione della valuta locale, il fiorino (sigla: HUF) dell'11% contro l'Euro, ma addirittura del 20% nei confronti del Dollaro. La politica di rigore intrapresa dai socialisti ha rassicurato il FMI, che ha concesso un prestito di 15,7 miliardi di dollari nell'autunno del 2008, ma ha pure approfondito il fossato che divideva la maggioranza di governo ormai pure dal proprio bacino elettorale di riferimento, pensionati e statali, che si è riversato nelle file dei conservatori e dei nazionalisti. Per nulla economicistica e tutta emotiva è stata invece la campagna di Jobbik, che ha proposto una rivisitazione al gulash del tradizionale canovaccio populistico est-europeo, in base al quale la crisi sarebbe dovuta al complotto delle "plutocrazie giudaico- massoniche" e della minoranza rom, gli ultimi definiti criminali mantenuti dall'assistenza sociale. Se rimane difficile delineare le fattezze dei plutocrati affamatori del popolo, la minoranza zingara, il 2% della popolazione, con crescenti problemi di integrazione dalla fine dell'economia pianificata in cui era stata sommariamente cooptata, offre il classico, facile capro espiatorio. L'additare bersagli precisi su cui sfogare le tensioni sociali paga da un punto di vista elettorale, specie nei periodi di crisi, ed ha fruttato alla destra estrema il terzo posto ad un'incollatura dai socialisti e 49 seggi, rispetto ai tre di cui godeva nel precedente parlamento. Le elezioni europee dello scorso anno avevano già anticipato gli equilibri sanciti dalle elezioni del 2010. Allora Fidesz, con il 56% dei voti ottenne 14 seggi dei 22 spettanti all'Ungheria, 4 andarono ai socialisti, mentre tre andarono a Jobbik ed uno ai verdi. Quest'ultima formazione, nata poco più d'un anno fa, ha raccolto a queste legislative il 7% dei voti complessivi portando in parlamento 5 rappresentanti ed ha rappresentato l'unica novità inattesa di queste votazioni. Dei 386 seggi complessivi, 176 sono aggiudicati con un sistema maggioritario a due turni, 152 con il proporzionale con sbarramento al 5% a livello nazionale mentre i rimanenti 58 seggi -detti compensativi- sono ulteriormente ripartiti tra le liste che hanno raccolto il 5% dei voti in almeno 7 circoscrizioni del proporzionale, su 20 che ne conta il Paese. Questo garantisce al tempo il ripescaggio dei migliori perdenti all'uninominale ed il "diritto di tribuna" ai leaders delle formazioni minori. Alessandro Milani |